lunedì 8 giugno 2015

La Regina della Costa Nera

Per proseguire la panoramica su Howard e Conan, ecco a voi La Regina della Costa Nera (Queen of the Black Coast), scritto nel 1934.




1.

Credimi: i verdi germogli si risvegliano in primavera,
L'autunno colora le foglie di fosco fuoco;
Credimi: io mantengo il mio cuore inviolato
Per riversare su un sol uomo il mio caldo desiderio.
Il canto di Bêlit

Gli zoccoli tambureggiarono sulla strada che scendeva ai moli. La gente che si disperse gridando ebbe soltanto la fuggevole visione di una figura rivestita di maglia d'acciaio su uno stallone nero, con un ampio mantello scarlatto che ondeggiava al vento. Da dietro di lui giunsero le grida e l'acciottolio dell'inseguimento, ma il cavaliere non si guardò alle spalle. Sbucò sui moli e spinse il cavallo ad arrestarsi con un'impennata al limitare di una banchina. I marinai lo guardarono a bocca aperta mentre alzavano i lunghi remi e scioglievano la vela di una galea dalla prua alta e dalla tolda ampia. A prora c'era il capitano, un uomo robusto con la barba nera, occupato a scostare con un arpione la nave dai pali d'ormeggio.
«Chi ti ha invitato a bordo?», urlò con rabbia quando il cavaliere volteggiò di sella e con un lungo balzo atterrò dritto nel bel mezzo del ponte.
«Falla partire!», ruggì l'intruso, con un gesto feroce che fece schizzare gocce scarlatte dalla grande spada che reggeva.
«Ma siamo diretti alle coste del Kush!», obiettò il capitano.
«Allora anch'io sono diretto nel Kush! Spingila via, sbrigati!»
L'altro lanciò una rapida occhiata alla strada, dove una piccola schiera di cavalieri correva al galoppo; molto più indietro si affannava a piedi un gruppo di arcieri con la balestra a spalla.
«Hai di che pagarti il viaggio?», chiese il capitano.
«Pago col ferro!», ruggì l'uomo in armatura, brandendo la grande spada che mandava riflessi azzurrini alla luce del sole. «Per Crom, uomo, se non salpi inzupperò questa galea con il sangue del suo equipaggio!»
Il capitano era un buon giudice di uomini. Diede un'occhiata al volto scuro e pieno di cicatrici del guerriero, indurito dalla collera, e urlò un rapido ordine, spingendo con forza contro i pali d'ormeggio. La galea ondeggiò nell'acqua chiara e i remi iniziarono a schioccare ritmicamente; poi un soffio di vento gonfiò la vela scintillante. La nave leggera sbandò al colpo di vento, poi prese la rotta come un cigno, acquistando velocità man mano che scivolava sull'acqua.
Sul molo i cavalieri agitarono le spade gridando minacce, ordinarono di far virare di bordo la nave, e urlarono agli arcieri di affrettarsi prima che l'imbarcazione fosse fuori portata delle balestre.
«Lasciali delirare», sogghignò il guerriero con durezza. «Mantienila sulla rotta, mastro timoniere.»
Il capitano scese dal piccolo ponte fra i casseri, passò tra le file dei rematori e salì sul ponte. Lo straniero era lì, con la schiena poggiata all'albero maestro, con gli occhi socchiusi e guardinghi, la spada pronta. Il marinaio lo guardò con fermezza, attento a non fare la minima mossa verso il lungo coltellaccio che portava alla cintura. Osservò la figura alta, possente, rivestita di un usbergo nero a piastre, lustri gambali, un elmo d'acciaio dai riflessi azzurrini dal quale sporgevano due levigate corna di toro. Dalle spalle protette dalla cotta scendeva il mantello scarlatto, ondeggiante alla brezza marina. Un largo cinturone zigrinato con una fibbia dorata reggeva il fodero dello spadone. Sotto l'elmetto ornato di corna, una chioma nera tagliata corta contrastava con lo splendore degli occhi azzurri.
«Se dobbiamo viaggiare insieme», disse il capitano, «sarà meglio essere in pace l'uno con l'altro. Il mio nome è Tito, mastro marinaio patentato dei porti dell'Argos. Sono diretto nel Kush, per barattare con i re negri collane, sete, zucchero e spade dall'elsa di ottone in cambio di avorio, cupra, minerale di rame, schiavi e perle.»
Il guerriero lanciò un'occhiata alle spalle, verso i moli che si allontanavano celermente, dove le figure gesticolavano ancora, impotenti, evidentemente in difficoltà a trovare una barca abbastanza veloce da raggiungere la galea che si allontanava rapida.
«Io sono Conan, un cimmero», rispose. «Sono venuto dall'Argos a cercare lavoro, ma non essendoci guerre in atto, non ho trovato nessuna occupazione a cui potessi dedicarmi.»
«Perché le guardie ti inseguivano?», chiese Tito. «Non che la cosa mi riguardi, ma forse potrei...»
«Non ho nulla da nascondere», rispose il cimmero. «Per Crom, anche se ho passato un bel po' di tempo fra voi popoli civili, le vostre usanze sono ancora al di là della mia comprensione.
La scorsa notte, in una taverna, un capitano delle Guardie Reali usò violenza alla ragazza di un giovane soldato, che naturalmente lo passò da parte a parte con la spada. Ma pare che ci sia qualche maledetta legge contro l'uccisione delle Guardie Reali, e il ragazzo e la ragazza fuggirono. Si sparse la voce che io ero stato visto con loro, e così stamattina sono stato trascinato a forza in tribunale, e un giudice mi ha chiesto dove si era nascosto il ragazzo. Ho replicato che era mio amico e non potevo quindi tradirlo. Questo non è piaciuto alla Corte, e il giudice ha sprecato un gran mucchio di parole su quello che è il mio dovere verso lo Stato, la società e altre cose che non comprendo, e mi ha nuovamente chiesto di dire dove era fuggito il mio amico. A questo punto ho cominciato a spazientirmi anch'io, perché avevo già spiegato la situazione.
Ma soffocai l'ira e usai tutta la mia calma, e il giudice urlò che per il mio disprezzo alla Corte mi avrebbe fatto marcire nella più profonda delle segrete finché non avessi tradito il mio amico. A questo punto, vedendo che erano tutti fuori di senno, ho sguainato la spada e ho spaccato in due il cranio del giudice; poi mi sono aperto la strada con la forza, ho trovato lo stallone di un alto ufficiale legato poco lontano, gli sono saltato in groppa e sono corso al porto, dove speravo di trovare una nave diretta verso terre straniere.»
«Ti capisco benissimo!», disse Tito, aspro. «I tribunali mi hanno derubato troppo spesso, in combutta con i ricchi mercanti, perché abbia simpatia nei loro riguardi. Dovrò rispondere a delle domande, se mai attraccherò ancora a questo porto, ma posso sempre provare di avere agito sotto minaccia. Tu comunque puoi anche metter via la spada. Siamo marinai pacifici e non abbiamo nulla contro di te. E poi, fa sempre comodo avere a bordo un uomo d'arme come te. Saliamo sul ponte di poppa e vuotiamo un bel boccale di birra.»
«Benissimo», rispose prontamente il cimmero, rinfoderando la spada.
L'Argus era una nave piccola e robusta, una di quelle tipiche imbarcazioni da commercio che fanno servizio tra i porti della Zingara, dell'Argos e le coste meridionali, tenendosi vicino alla costa e di rado avventurandosi lontano nel mare aperto. Era alta di poppa, e la prua si alzava con un'elegante curvatura; la carena era larga e si arrotondava armoniosamente verso i dritti di prua e di poppa. Era guidata con il lungo remo poppiero, e la spinta era fornita soprattutto da un'ampia vela di seta a strisce, coadiuvata da una vela triangolare. I remi erano usati per virare nelle cale e nelle baie, e durante i periodi di bonaccia. Ce n'erano dieci per fianco, cinque a prora e cinque a poppa del piccolo ponte di comando. Sotto questo ponte e sotto quello prodiero era stivata la parte più preziosa del carico. Gli uomini dormivano sul ponte o tra le panche dei rematori, proteggendosi durante il maltempo sotto teli da tenda. L'equipaggio era formato da venti uomini ai remi più tre al timone e il capitano.
Così l'Argus si spinse verso meridione, con il tempo sempre al bello. Il sole picchiava di giorno in giorno sempre più forte, e furono stese le tende: teloni di seta a strisce che si intonavano con la vela scintillante e con il luccichio degli intarsi dorati sulla prora e lungo le murate.
Avvistarono la costa dello Shem: lunghe pianure ondulate coronate in lontananza dalle bianche torri della città, cavalieri con la barba nera dai riflessi azzurri e il naso a becco che costeggiavano la spiaggia sui loro destrieri osservando la galea con sospetto. Non fecero scalo: a commerciare con i fieri e sospettosi figli dello Shem c'era ben poco da guadagnare.
E capitan Tito non entrò neppure nella vasta baia in cui il fiume Styx rovescia i suoi flutti smisurati nell'oceano e i massicci castelli tenebrosi di Khemi torreggiano sopra le acque azzurre. Le navi che non siano invitate non si fermano in quel porto, dove sinistri stregoni intessono spaventosi incantesimi tra il fumo denso dei sacrifici che si innalza in continuazione dagli altari macchiati di sangue sui quali fanciulle nude urlano e dove Set, l'Antico Serpente, si dice contorcesse le spire lucenti tra le schiere dei suoi adoratori.
Capitan Tito si tenne ben lontano da quella incantevole baia cristallina, anche quando una bassa imbarcazione con la prua a forma di serpente spuntò da dietro un promontorio su cui sorgeva un castello, e donne nude dalla pelle bruna, con grossi fiori rossi nei capelli, lanciarono richiami ai marinai atteggiandosi in pose provocanti.
Adesso le torri scintillanti non si ergevano più dall'entroterra. Avevano oltrepassato le coste meridionali della Stygia e navigavano lungo le coste del Kush. Il mare e le sue strade erano misteri mai risolti per Conan, la cui terra natia si trovava tra le alte montagne degli altipiani settentrionali. E lui stesso non era privo di interesse per i robusti marinai, che per la maggior parte non avevano mai visto nessuno della sua razza.
Erano tipici marinai argosiani, dalla corporatura bassa e tarchiata. Conan torreggiava in mezzo a loro, e neppure due di essi messi insieme potevano eguagliare la sua forza. Essi erano resistenti e robusti, ma quella di Conan era la resistenza e la vitalità di un lupo; i suoi muscoli erano irrobustiti, i suoi nervi affinati dalla durezza della vita nelle terre più ostili del mondo. Il cimmero era rapido alla risata ma altrettanto rapido e terribile alla collera. Era un buon mangiatore e le bevande forti erano la sua passione e la sua debolezza. Sotto molti aspetti era ingenuo come un bambino, poco avvezzo alle malizie della civiltà, ma intelligente per natura, geloso dei suoi diritti e pericoloso come una tigre affamata. Giovanissimo, la vita militare e i vagabondaggi lo avevano irrobustito, e il suo abbigliamento tradiva i lunghi viaggi in terre diverse. L'elmo ornato di corna era simile a quello usato dai biondi Aesir del Nordheim; l'usbergo e i gambali erano della più delicata fattura kothiana; la fine maglia ad anelli che gli proteggeva le braccia e le gambe era della Nemedia; la lama appesa alla cintura era uno spadone dell'Aquilonia; e lo sgargiante mantello scarlatto non poteva che essere stato tessuto nell'Ophir.
Continuarono a procedere verso meridione e capitan Tito cominciò a cercare i villaggi negri dalle alte palizzate. Ma sulla spiaggia di una baia, cosparsa di neri corpi nudi, trovarono soltanto rovine fumanti. Tito imprecò.
«Avevo fatto buoni affari, qui, a suo tempo. Questa è opera dei pirati.»
«E se li incontriamo?», Conan slacciò il fermo della grande spada.
«La mia non è una nave da guerra. Noi fuggiamo, non combattiamo. Se però arriviamo allo scontro, abbiamo già sconfitto i predoni altre volte, e potremmo farlo di nuovo; a meno che si tratti della Tigre di Bêlit.»
«Chi è Bêlit?»
«La furia più selvaggia che abbia mai scampato la forca. Se ho ben interpretato i segni, sono stati proprio i suoi macellai a distruggere quel villaggio sulla baia. Possa riuscire a vederla penzolare un giorno da un pennone! È chiamata la Regina della Costa Nera. È una donna shemita, che guida scorridori negri. Saccheggiano le navi e hanno mandato all'altro mondo un mucchio di buoni commercianti.»
Da sotto il ponte di poppa Tito tirò fuori corsaletti di cuoio, elmetti, archi e frecce.
«Serviranno a ben poco, se saremo inseguiti», brontolò. «Ma addolora l'anima perdere la vita senza combattere.»

Era appena l'alba quando la vedetta diede l'allarme. Una lunga sagoma funesta scivolava verso tribordo attorno al lungo promontorio di un'isola: una galea snella e affilata, con un ponte sopraelevato che correva dal dritto di prua a poppa. Quaranta remi da ciascun lato la spingevano velocemente sull'acqua, e le murate basse formicolavano di negri nudi che cantavano e battevano le lance sugli scudi ovali. In cima all'albero maestro sventolava un lungo pennone cremisi.
«Bêlit!», gridò Tito, impallidendo. «Presto! Virate di bordo! Dritti nella foce di quel torrente! Se tocchiamo terra prima che ci raggiungano, abbiamo una speranza di salvarci la vita!»
Così, cambiando rotta di colpo, l'Argus si lanciò rapida verso la linea della risacca che si avventava contro la spiaggia frangiata di palme, mentre Tito camminava su e giù incitando i rematori ansanti a centuplicare i loro sforzi. La barba nera del capitano era irta e gli occhi mandavano lampi.
«Dammi un arco», disse Conan. «Non la considero proprio l'arma più adatta a un vero uomo, ma ho imparato a usarla tra gli Hyrkaniani, e sarei stupito se non riuscissi a colpire uno o due dei negri su quel ponte laggiù.»
Ritto a poppa, osservò la nave affilata che avanzava sfiorando appena la superficie dell'acqua, e benché non fosse un marinaio, capì subito che l'Argus non avrebbe mai vinto la corsa. Già le frecce, scoccate dal ponte dei pirati, cadevano in mare sibilando a non più di venti passi dalla poppa.
«Sarà meglio stare attenti», brontolò il cimmero, «altrimenti moriremo tutti con una freccia nella schiena, senza restituire nemmeno un colpo.»
«Piegate la schiena, cani!», ruggì Tito, agitando il pugno. I rematori barbuti grugnirono, muovendo i remi, con i muscoli che guizzavano e risaltavano e il sudore che cominciava a scorrere sulla pelle. Il fasciame della piccola ma robusta galea scricchiolava e gemeva mentre gli uomini la lanciavano alla massima velocità. Il vento era caduto; la vela pendeva afflosciata. Gli scorridori si avvicinavano inesorabili, sempre di più; i fuggiaschi erano ancora a un miglio buono dalla costa quando uno dei timonieri si accasciò rantolando sul remo con una lunga freccia che gli trapassava il collo. Tito balzò a prenderne il posto; e Conan, piantandosi a gambe divaricate sul ponte di poppa, sollevò l'arco. Adesso poteva vedere chiaramente i particolari della nave pirata. I rematori erano protetti da una fila di schermi alzati lungo i fianchi, ma i guerrieri che danzavano sullo stretto ponte erano in piena vista. Erano dipinti e ornati di piume, in maggior parte nudi, e brandivano lunghe lance e scudi maculati.
Sull'alta piattaforma di prua c'era una figura slanciata, dalla pelle bianca che scintillava in un abbagliante contrasto con le lucide pelli color ebano. Bêlit, senza dubbio. Conan tese la freccia all'altezza dell'orecchio... ma qualche capriccio o qualche scrupolo gli deviò la mano e mandò il dardo a conficcarsi nel corpo di un lanciere alto e piumato a fianco della regina.
A poco a poco la galea pirata si avvicinava all'altra imbarcazione. Una pioggia di dardi si abbatté sull'Argus, e gli uomini lanciarono grida di dolore. Tutti e tre i timonieri giacevano sul ponte trafitti da frecce, e Tito reggeva da solo il lungo remo direzionale, ansimando sanguinose maledizioni, con le gambe divaricate che erano nodi di muscoli in tensione. Poi con un singulto cadde sulla tolda, con il cuore trafitto da un lungo dardo vibrante. L'Argus perse velocità e sbandò fra la schiuma. Il caos scoppiò tra gli uomini, e Conan prese il comando alla sua caratteristica maniera.
«Forza, uomini!», ruggì, lasciando andare con uno schiocco maligno la corda dell'arco. «Afferrate le armi e restituite a quei cani un paio di colpi, prima che ci taglino la gola! È inutile piegare ancora la schiena: ci abborderanno prima ancora di percorrere cinquanta passi!»
In preda alla disperazione, i marinai abbandonarono i remi e afferrarono le armi: una mossa intrepida ma inutile. Ebbero ancora il tempo di scagliare una volata di frecce prima che i pirati fossero loro addosso. Priva di timoniere, l'Argus deviò di fianco, e l'appuntita prua d'acciaio della nave pirata le speronò la fiancata. I grappini si agganciarono alle murate. Dall'alto i pirati negri scagliarono un nugolo di frecce che lacerò i corsetti imbottiti dei marinai ormai condannati, poi saltarono giù con le lance in pugno per completare il massacro. Sul ponte della nave pirata giaceva una mezza dozzina di cadaveri: la prova dell'abilità di Conan nel tiro con l'arco.
Il combattimento sull'Argus fu breve e sanguinoso. I tozzi marinai, impari avversari per gli alti barbari, furono uccisi fino all'ultimo uomo. Ma da un'altra parte la battaglia aveva preso una piega diversa. Conan, sull'alta poppa slanciata, si trovava allo stesso livello del ponte pirata. Quando la prua d'acciaio aveva squarciato in due l'Argus, il cimmero aveva piantato i piedi sul ponte per resistere all'urto, e aveva abbandonato l'arco. Un alto corsaro, superando con un salto la murata, incontrò a mezz'aria lo spadone del cimmero, e ne fu tagliato in due all'altezza della cintola, cosicché il torace cadde da una parte e le gambe dall'altra. Poi, con un'esplosione di furia che lasciò un cumulo di cadaveri maciullati lungo i parapetti della nave, Conan salì sulla murata e balzò sul ponte della Tigre.
In un istante fu al centro di un uragano di lance e di mazze che cercavano di colpirlo. Ma lui si muoveva in un accecante turbinio d'acciaio. Le lance gli ammaccavano l'armatura o scivolavano di lato, mentre la sua spada intonava un canto di morte. In lui si era risvegliata la pazzia guerriera della sua stirpe, e mentre una nebbia rossastra di furia irragionevole gli velava la vista, spaccò crani, schiantò toraci, tranciò arti, strappò via viscere, tappezzò il ponte di una sinistra messe di cervella e sangue.
Invulnerabile nella sua armatura, la schiena contro l'albero maestro, ammucchiava ai suoi piedi cadaveri straziati, finché i nemici si ritirarono ansimando di rabbia e di timore. Poi, mentre i negri sollevavano le lance per scagliarle, e Conan si preparava a balzare e morire in mezzo a loro, un grido acuto bloccò le braccia alzate. Tutti rimasero fermi come statue, i negri giganteschi nella posizione per il lancio, e il guerriero in maglia d'acciaio con in pugno la spada che grondava sangue.
Bêlit balzò davanti ai negri, facendo abbassare le lance. Si voltò verso Conan, gonfiando il petto, gli occhi lampeggianti. Dita ardenti di meraviglia si impadronirono del cuore del cimmero. La donna era snella, ma ben tornita come una Dea: agile e formosa nello stesso tempo. Indossava solamente un'ampia fascia di seta. Le membra bianche come l'avorio e i globi eburnei dei seni procurarono un'accelerazione di feroce passione nelle pulsazioni del cimmero, perfino nella tensione furibonda della battaglia. Gli splendidi capelli neri, scuri come una notte stygiana, le cadevano in ciocche ondulate e lucenti lungo la schiena. I suoi occhi scuri bruciarono il cimmero.
Era indomita come il vento del deserto, agile e pericolosa come una pantera. Gli venne vicino, incurante della spada gocciolante del sangue dei suoi guerrieri. Lo sfiorò con la gamba agile, tanto gli venne vicino. Le sue labbra rosse si schiusero mentre fissava l'uomo dritto negli occhi foschi e minacciosi.
«Chi sei?», domandò la donna. «Per Ishtar, non ho mai visto uno come te, sebbene abbia battuto il mare dalle coste della Zingara fino ai più lontani fuochi del meridione. Da dove vieni?»
«Dall'Argos», rispose Conan brusco, attento ai tradimenti. Se la sua mano sottile si fosse avvicinata all'impugnatura tempestata di gemme del pugnale che portava alla cintura, gli sarebbe bastato un colpetto a mano aperta per farla stramazzare sul ponte priva di sensi. Tuttavia non sentiva in cuor suo alcun pericolo; aveva stretto troppe donne, civili e barbare, fra le braccia dai muscoli d'acciaio, per non riconoscere la luce che ardeva negli occhi di lei.
«Non sei uno di quei rammolliti Hyboriani!», esclamò la donna. «Sei feroce e spietato come un lupo grigio. I tuoi occhi non sono mai stati abbagliati dalle luci delle città; i tuoi muscoli non sono mai stati indeboliti dalla vita fra pareti di marmo.»
«Sono Conan, un cimmero», rispose lui.
Per i popoli delle regioni tropicali, il settentrione era un territorio semimitico, popolato da feroci giganti dagli occhi azzurri che di tanto in tanto scendevano dalle loro fortezze di ghiaccio con torce e spade. Le loro scorrerie non li avevano mai portati tanto a meridione da arrivare fino allo Shem, e quella ragazza shemita non faceva alcuna distinzione tra Aesir, Vanir o Cimmeri. Con ristinto infallibile delle donne, sapeva di aver trovato il suo uomo, e che fosse di un'altra razza non aveva importanza, se non per il fatto che gli dava un tocco di fascino di terre lontane.
«E io sono Bêlit», esclamò la donna, con lo stesso tono di una che dicesse: «Io sono la regina!».
«Guardami, Conan!» Spalancò le braccia. «Io sono Bêlit, Regina della Costa Nera. Tu sei freddo come le montagne innevate che ti hanno generato, tigre del settentrione! Stringimi e distruggimi con la violenza del tuo amore! Vieni con me fino ai confini della terra e ai confini del mare! Io sono regina grazie al fuoco, al ferro e al massacro... sii tu il mio re!»
Conan passò in rassegna le schiere di uomini incrostati di sangue rappreso, cercando espressioni di collera o di gelosia. Non ne trovò. La furia era sparita da quei volti d'ebano. Capì che per quegli uomini Bêlit era più di una donna: era una Dea da non discutere. Lanciò un'occhiata all'Argus che dondolava nell'acqua arrossata, sbandando paurosamente, con i ponti coperti di morti, trattenuta dai grappini di ferro. Lanciò un'occhiata alla spiaggia frangiata d'azzurro, alle lontane nebbie verdi dell'oceano, alla figura tesa e vibrante che gli stava davanti: e la sua anima barbara si agitò nel petto. Visitare quegli scintillanti reami azzurri con la giovane tigre dalla pelle bianca... per amare, ridere, vagabondare, saccheggiare...
«Verrò con te», disse brusco, scuotendo le gocce di sangue dalla spada.
«Tu, N'Yaga!» La voce della donna schioccò come la corda di un arco. «Prendi le erbe e medica le ferite del tuo padrone! Voialtri, portate a bordo il bottino, e tagliamo i grappini.»
Conan si sedette con la schiena contro la murata di poppa, mentre il vecchio Sciamano gli curava le ferite alle mani e alle gambe, e il carico della sfortunata Argus veniva rapidamente trasferito sulla Tigre e ammassato in piccole cabine sotto il ponte. I corpi dell'equipaggio e dei pirati caduti furono buttati in mare agli squali, mentre i negri feriti furono deposti sulla tolda per essere curati. Poi furono tagliati i grappini di ferro; e mentre l'Argus affondava silenziosamente nelle acque macchiate di sangue, la Tigre si mosse silenziosa verso Meridione al ritmico tonfo dei remi.
Appena furono al largo, sulle trasparenti profondità azzurrine, Bêlit salì a poppa. I suoi occhi brillavano come quelli di una pantera nel buio, mentre si toglieva di dosso gli ornamenti, i sandali e l'ampia fascia di seta e li gettava ai piedi di Conan. Si alzò in punta di piedi tendendo le braccia verso l'alto, linea tremula di candido nudo, e gridò all'orda di disperati: «Lupi del mare azzurro, guardate la danza... la danza nuziale di Bêlit, i cui padri erano i re di Asgalun!».
E danzò, come il vortice di un turbine del deserto, come le lingue d'una fiamma inestinguibile, come l'impulso della creazione e l'impulso della morte. I suoi piedi pallidi sfioravano il ponte macchiato di sangue, e uomini morenti dimenticarono la morte mentre la guardavano impietriti. Poi, quando le stelle bianche scintillarono contro l'azzurro velluto del crepuscolo, rendendo il suo corpo roteante un palpito di fuoco eburneo, con un grido selvaggio si gettò ai piedi di Conan, e il flusso cieco del desiderio del cimmero spazzò via ogni altra cosa quando il suo corpo si schiacciò ansimante contro le piastre nere del suo usbergo.

2.

In quella morta rocca di pietre cadenti
I suoi occhi furori preda di quell'empio splendore:
E una strana pazzia mi prese alla gola
Come se fra noi ci fosse un rivale d'amore.
Il canto di Bêlit

La Tigre percorreva il mare e i villaggi negri rabbrividivano. I tam-tam battevano nella notte, narrando la storia che la furia del mare aveva trovato un compagno, un uomo di ferro la cui collera era pari a quella di un leone ferito. E i sopravvissuti delle navi stygiane massacrate maledicevano Bêlit e l'uomo bianco dai feroci occhi azzurri; così i principi stygiani ricordarono a lungo quell'uomo, e il ricordo divenne un albero d'amarezza che produsse frutti sanguinosi negli anni a venire.
Ma senza meta come un vento vagabondo, la Tigre incrociò le coste meridionali fin quando non s'ancorò alla foce d'un largo fiume cupo, le cui rive erano muraglie di mistero ammassate di giungla.
«Questo è il fiume Zarkheba, e vuol dire Morte», disse Bêlit. «Le sue acque sono veleno. Vedi come scorrono scure e fangose? Solo rettili pericolosi ci vivono. Il popolo negro lo sfugge. Una volta, una galea stygiana che cercava di sottrarsi a me fuggì per il fiume e svanì. Io gettai l'ancora in questo stesso posto, e qualche giorno dopo la galea venne fluttuando lungo le acque scure, e il suo ponte era macchiato di sangue, e spoglio. Un unico uomo si trovava a bordo, ma era impazzito e morì vaneggiando. Il carico era intatto, ma l'equipaggio era svanito nel silenzio e nel mistero.
Amore mio, io penso che ci sia una città da qualche parte lungo il fiume. Ho ascoltato storie di torri gigantesche e mura intraviste da lontano, da marinai che osarono risalire per un tratto il fiume. Noi non temiamo nulla: Conan, andiamo a saccheggiare quella città!»
Conan si disse d'accordo. In genere condivideva sempre i piani di lei. Era di Bêlit la mente che studiava le incursioni, e di Conan il braccio che metteva in atto le sue idee. Al cimmero importava poco dove si dirigevano e chi combattevano, almeno finché si dirigevano da qualche parte e combattevano qualcuno. Quella vita gli piaceva.
Battaglie e scorrerie avevano ridotto il numero dell'equipaggio; rimanevano solo circa ottanta lancieri, appena sufficienti a manovrare la lunga galea. Ma Bêlit non voleva perdere tempo nella lunga crociera verso i regni insulari del Meridione, dove reclutava i suoi bucanieri. Era infiammata dalla bramosia dell'avventura: così la Tigre scivolò nella foce del fiume prendendo di petto l'ampia corrente, mentre i marinai spingevano forte sui remi.
Superarono la curva misteriosa che toglieva la visuale del mare, e il tramonto li colse mentre avanzavano con difficoltà contro la lenta corrente, evitando banchi di sabbia sui quali strani rettili si muovevano sinuosamente. Non videro nemmeno un coccodrillo, e neanche animali a quattro zampe o uccelli che scendessero alla riva a dissetarsi. Avanzarono nell'oscurità che precede il sorgere della luna, fra le rive che erano solide palizzate di tenebra, dalle quali provenivano rumori misteriosi passi furtivi e il bagliore di occhi sinistri.
E una volta una voce inumana si alzò in un'orribile parodia... il verso di una scimmia, disse Bêlit, aggiungendo che le anime di uomini malvagi erano imprigionate in quegli animali dalla forma umana, come punizione per i crimini commessi. Ma Conan era dubbioso, perché una volta, in una gabbia dalle sbarre dorate, in una città dell'Hyrkania, aveva visto un insondabile animale dagli occhi tristi, che, a quanto la gente gli aveva detto, era una scimmia, e in esso non c'era nulla della malvagità demoniaca che aveva vibrato nella risata urlante, echeggiata nella giungla tenebrosa.
Poi sorse la luna, una macchia di sangue venata di ebano, e la giungla si svegliò in un'orribile cacofonia a darle il benvenuto. Ruggiti, ululati e grida che misero il tremito addosso ai guerrieri negri; ma tutti quei rumori, notò Conan, provenivano dall'interno della giungla, come se gli animali sfuggissero non meno che gli uomini le acque nere dello Zarkheba.
Sopra i tenebrosi viluppi degli alberi e le fronde ondeggianti, la luna inargentò il fiume, e la scia della nave divenne un'increspatura scintillante di bollicine fosforescenti che si allargava come un'ampia strada di gemme splendide. I remi si immergevano nell'acqua luminosa e ne uscivano coperti di gelido argento. Le piume delle acconciature dei guerrieri si agitavano nel vento, e le gemme sull'elsa delle spade e sulle armature risplendevano gelide.
La fredda luce traeva fuochi glaciali dalle gemme che Bêlit portava nei capelli a crocchia, mentre lei si stirava su una pelle di leopardo gettata sulla tolda. Poggiata su un gomito, con il mento sorretto dalla mano sottile, alzò lo sguardo fissando in volto Conan, che le riposava accanto, con la chioma nera ondeggiante nella debole brezza. Gli occhi di Bêlit erano gemme scure ardenti alla luce lunare.
«Mistero e terrore ci circondano, Conan, e noi scivoliamo nel reame dell'orrore e della morte», disse. «Hai paura?»
Una scrollata delle spalle rivestite di maglia fu l'unica risposta.
«Nemmeno io ho paura», continuò lei, pensierosa. «Non ho mai avuto paura. Ho guardato le zanne snudate della Morte troppo spesso. Conan, tu hai paura degli Dèi?»
«Non vorrei camminare nella loro ombra», rispose il cimmero lentamente. «Alcuni Dèi sono forti nell'offendere, altri nell'aiutare; almeno così dicono i loro sacerdoti. Mitra degli Hyboriani dev'essere un Dio potente, perché la sua gente ha costruito città per tutto il mondo. Ma anche gli Hyboriani temono Set. E Bel, Dio dei ladri, è un buon Dio. Quando facevo il ladro nella Zamora ho avuto modo di saperlo.»
«E i tuoi Dèi? Non ti ho mai sentito invocarli.»
«Il loro capo è Crom. Abita in una grande montagna. Ma perché invocarlo? Ben poco gli importa se gli uomini vivano o muoiano. Meglio starsene zitti, che richiamare la sua attenzione; manderà sciagure, non fortuna! È spietato e senza amore, ma alla nascita soffia nell'anima dell'uomo il potere di lottare e uccidere. Cos'altro dovrebbero chiedere gli uomini agli Dèi?»
«Ma i mondi oltre il Fiume della Morte?», insistette lei.
«Non c'è speranza né qui né dopo, nel culto del mio popolo», rispose Conan. «In questo mondo gli uomini lottano e soffrono invano, trovando piacere solo nella lucente follia della battaglia; morendo, le loro anime entrano in un reame grigio e nebbioso di nuvole e venti gelidi, per vagare tristemente nell'eternità.»
Bêlit rabbrividì. «La vita, per quanto brutta sia, è sempre meglio di un simile destino. Non credi, Conan?»
Il barbaro si strinse nelle spalle. «Ho conosciuto molti Dèi. Colui che li nega è cieco come colui che se ne fida troppo. Io non cerco oltre la morte. Può esserci la tenebra, come affermano gli scettici nemediani, o il reame di Crom, fatto di ghiaccio e nubi, o le pianure innevate e le sale a cupola del Valhalla dei nordici. Non lo so, e non me ne importa. Io voglio vivere appieno, finché vivo. Mi basta conoscere il ricco sapore della carne rossa e del vino che mi punge il palato, il caldo abbraccio di braccia bianche, la folle esultanza della battaglia, quando le spade azzurrine guizzano e s'arrossano, e io sono contento. Che sacerdoti, maestri e filosofi meditino pure sulla realtà e sull'illusione. Io so questo: se la vita è illusione, allora anch'io sono illusione, ed essendolo, l'illusione per me è reale. Io vivo, brucio di vita, amo, uccido, e sono contento.»
«Ma gli Dèi sono reali», disse lei, seguendo la propria corrente di pensieri. «E su tutti ci sono gli Dèi degli Shemiti... Ishtar, Ashtoreth, Derketo e Adonis. Bel, anche lui, è shemita, perché nacque nell'antica Shumir, tanto tempo fa, e venne al mondo ridendo, con la barba riccia e saggi occhi da spiritello, per rubare le gemme dei re dei tempi andati.
C'è vita oltre la morte, lo so, e so anche questo, Conan di Cimmeria.» Si alzò flessuosa sui ginocchi cingendolo in un abbraccio felino. «So che il mio amore è più forte di ogni morte! Sono stata nelle tue braccia, ansimando per la violenza del nostro amore; tu mi hai stretta con la ferocia dei tuoi baci ardenti. Il mio cuore è saldato al tuo, la mia anima è parte della tua! Se io fossi nell'immobilità della morte, e tu stessi lottando per la vita, tornerei indietro dall'abisso per aiutarti, sì, sia che il mio spirito navigasse sotto vele purpuree nel mare cristallino del paradiso, sia che la mia anima si contorcesse nelle fiamme fuse dell'inferno! Sono tua, e tutti gli Dèi e tutte le loro eternità non ci separeranno!»

La vedetta di prua mandò un grido. Conan spinse Bêlit di lato e balzò in piedi, con la spada che mandava un lungo scintillio argenteo alla luce lunare e i capelli che gli si rizzavano sulla nuca per quel che vedeva. Il guerriero negro penzolava al di sopra della tolda, sostenuto da quello che pareva uno scuro tronco flessuoso che si inarcava sopra la murata. Conan si rese conto che era un serpente gigantesco, che era strisciato sulla fiancata della prua e aveva afferrato lo sventurato guerriero nelle fauci. Le scaglie gocciolanti brillavano infette alla luna, mentre si inarcava alto al di sopra della tolda, e l'uomo gridava e si contorceva come un topo fra le zanne di un pitone. Conan si precipitò a prua, e con un fendente della grande spada troncò quasi in due il corpo gigantesco, più basso di quello d'un uomo. Il sangue inzuppò le vele mentre il mostro morente ondeggiava allontanandosi, sempre tenendo stretta la vittima, e sprofondava nel fiume, spira dopo spira, frustando l'acqua fino a farla diventare schiuma insanguinata, nella quale rettile e uomo svanirono insieme.
Da quel momento Conan si mise in vedetta di persona, ma nessun altro orrore venne strisciando dagli abissi tenebrosi; e quando l'alba imbiancò la giungla, vide le nere zanne di torri che emergevano fra gli alberi. Chiamò Bêlit, che aveva dormito sulla tolda, avvolta nel suo mantello scarlatto: e lei balzò al suo fianco, con gli occhi che mandavano fiamme. Aveva le labbra dischiuse per ordinare ai guerrieri di prendere archi e lance; poi i suoi incantevoli occhi si spalancarono.
Era solo lo spettro di una città, quella che videro quando oltrepassarono un promontorio coperto di giungla e si avvicinarono alla curva della spiaggia. Erbacce putride crescevano fra pietre di moli in disfacimento e fra pavimentazioni sconnesse che un tempo erano state strade, ampie piazze e corti spaziose. Da tutti i lati, eccettuato quello del fiume, la giungla si era intrufolata, mascherando con un verde malsano colonne cadute e tumuli in rovina. Qua e là torri pendenti si alzavano ubriache contro il cielo mattutino e colonne spezzate spuntavano fra mura in rovina. Nello spazio centrale, una piramide di marmo sorreggeva una sottile colonna, in cima alla quale sedeva, o era acquattata, una cosa che il cimmero ritenne essere una statua finché i suoi occhi acuti non vi scorsero la vita.
«È un uccello gigantesco», disse uno dei guerrieri, fermo a prua.
«È un pipistrello mostruoso», insistette un altro.
«È una scimmia», disse Bêlit.
Proprio in quel momento l'essere spalancò due ali enormi e s'alzò in volo sulla giungla.
«Una scimmia alata», disse il vecchio N'Yaga, a disagio. «Avremmo fatto meglio a tagliarci la gola da soli, anziché venire in questo posto.»
Bêlit lo dileggiò per la sua superstizione, e ordinò che la galea accostasse a riva e fosse legata al molo in rovina. Fu la prima a balzare a terra, seguita da presso da Conan, poi da tutti i pirati dalla pelle d'ebano, con le piume delle acconciature ondeggianti al vento, le lance pronte, gli occhi dubbiosamente attenti alla giungla circostante.
Su tutto regnava un silenzio sinistro come un serpe addormentato. Bêlit si fermò fra le rovine e la vibrante vitalità della sua snella figura contrastò stranamente con la desolazione e il disfacimento che la circondavano. Il sole fiammeggiò in alto lentamente, sinistramente, al di sopra della giungla, inondando le torri di un oro spento che lasciò ombre in agguato fra i muri pericolanti. Bêlit indicò una sottile torre rotonda barcollante sulla base malferma. Un'ampia pavimentazione di lastre incrinate e inframmezzate d'erbacce, fiancheggiata da colonne cadute, conduceva alla torre, e di fronte ad essa c'era un massiccio altare di pietra. Bêlit percorse rapidamente l'antica rampa e si fermò davanti all'altare.
«Questo era il tempio degli antichi», disse. «Guarda, si vedono ancora i canaletti per il sangue ai lati dell'altare, e le piogge di diecimila anni non hanno ancora cancellato le macchie scure. Le pareti sono crollate, ma questo blocco di pietra sfida il tempo e gli elementi.»
«Ma chi erano questi antichi?», chiese Conan.
Bêlit allargò le mani sottili. «Nemmeno nelle leggende questa città è menzionata. Ma osserva le tacche a maniglia, alle due estremità dell'altare! I sacerdoti spesso nascondono i loro tesori sotto gli altari. Voi quattro, cercate di sollevarlo.»
Fece un passo indietro per fare spazio agli uomini, e diede un'occhiata alla torre che incombeva sghemba su di loro. Tre fra i negri più robusti avevano afferrato le tacche intagliate nella roccia, curiosamente inadatte a mani umane, quando Bêlit balzò indietro con un grido acuto. Gli uomini si immobilizzarono, e Conan, che si era curvato ad aiutarli, roteò su se stesso con un'imprecazione stupita.
«Un serpente, nell'erba», disse Bêlit, indietreggiando. «Uccidetelo, e datevi da fare con il blocco di pietra.»
Conan si avvicinò rapidamente a lei mentre un altro prendeva il suo posto. Scrutò impaziente l'erba, cercando il rettile, mentre i negri giganteschi allargavano le gambe e grugnivano, facendo forza con i muscoli enormi tesi per lo sforzo sotto la pelle d'ebano. L'altare non si alzò dal terreno, ma all'improvviso rotolò su un fianco. E nello stesso tempo ci fu un rombo in alto, e la torre crollò con uno schianto, ricoprendo di pietre rotolanti i quattro negri.
Un grido d'orrore si alzò dagli astanti. Le sottili dita di Bêlit si conficcarono nel braccio muscoloso di Conan. «Non c'era nessun serpente», sussurrò. «Era solo un'astuzia per farti venire via da lì. Avevo paura: gli antichi custodivano bene i loro tesori. Togliamo le pietre.»
Con grande fatica eseguirono il compito ed estrassero i corpi maciullati delle quattro vittime. E sotto di esse, macchiata del loro sangue, i pirati trovarono una cripta intagliata nella roccia viva. L'altare, incernierato stranamente con pioli di pietra e alloggiamenti, ne era stato il coperchio. E alla prima occhiata la cripta parve brillare di fuoco liquido, afferrando la luce del mattino in una miriade di sfaccettature rilucenti. Una ricchezza superiore ad ogni sogno giaceva davanti agli occhi dei pirati sbigottiti: diamanti, rubini, granati, zaffiri, turchesi, seleniti, opali, smeraldi, ametiste, gemme sconosciute che brillavano come òcchi di donne malvagie. La cripta era piena fino all'orlo di gemme luccicanti che il sole del mattino trasformava in fuoco vivo.
Con un'esclamazione, Bêlit cadde in ginocchio fra i calcinacci macchiati di sangue, ai bordi della cripta, e tuffò le braccia eburnee, fino alle spalle, in quel lago di splendore. Le ritrasse stringendo qualcosa che le strappò un altro grido: una lunga collana di pietre scarlatte che parevano grumi di sangue rappreso, fissati su uno spesso filo d'oro. Nel loro riflesso, la luce dorata del sole si trasformò in una nebbia sanguigna.
Gli occhi di Bêlit erano quelli di una donna ipnotizzata. L'anima shemita prova una gioiosa ubriachezza nelle ricchezze e nello splendore materiale, e la vista di quel tesoro avrebbe scosso l'anima anche a un imperatore dello Shushan.
«Raccogliete le gemme, cani!», gridò con voce resa acuta dall'emozione.
«Guardate!» Un muscoloso braccio nero si puntò verso la Tigre e Bêlit si girò di scatto, snudando i denti, come se si aspettasse di vedere un corsaro rivale precipitarsi a privarla del bottino. Ma dai boccaporti della nave emerse solo una sagoma scura, che si innalzò sulla giungla.
«La scimmia demoniaca ha ispezionato la nave», mormorarono i negri a disagio.
«Che importa?», esclamò Bêlit con un'imprecazione, rimettendo a posto un ricciolo ribelle con un gesto impaziente. «Fate una portantina con lance e mantelli per trasportare le gemme... dove diavolo vai?»
«A dare un'occhiata alla galea», brontolò Conan. «Quella specie di pipistrello potrebbe aver aperto uno squarcio nel fondo, per quanto ne sappiamo.»
Percorse velocemente il molo in rovina e balzò a bordo. Un rapido esame sotto la tolda, e lanciò una violenta imprecazione, con un'occhiata rannuvolata nella direzione in cui era svanito l'essere a forma di pipistrello. Tornò in fretta da Bêlit che sovrintendeva al saccheggio della cripta. La donna si era messa al collo la collana, e sul suo petto nudo i grumi rossastri scintillavano sinistramente. Un gigantesco negro era immerso fino alla cintola nella cripta traboccante di gemme e raccoglieva grandi manate di pietre preziose da passare ad altre mani ansiose, in attesa più in alto. Fili di iridescenza gelida gli pendevano dalle dita brune; gocce di fuoco rosso cadevano dalle sue mani e si ammucchiavano con lo splendore argenteo e i colori dell'arcobaleno. Era come se un titano negro stesse a gambe spalancate nei lucenti abissi dell'inferno, con le mani alzate piene di stelle.
«Il Demone volante ha squarciato i barili d'acqua», disse Conan. «Se non fossimo stati tanto abbagliati da queste pietre, avremmo sentito il fracasso. Siamo stati pazzi a non lasciare un uomo di guardia. Non possiamo bere l'acqua di questo fiume. Prenderò venti uomini e andrò a cercare acqua fresca nella giungla.»
Bêlit lo fissò disattenta, e nei suoi occhi c'era lo sguardo vuoto della sua strana passione, mentre le sue dita giocherellavano con le gemme che le poggiavano sul seno.
«Benissimo», disse in tono assente, quasi senza badargli. «Io porterò il bottino a bordo.»

La giungla si richiuse rapida su di loro, cambiando la luce da dorata in grigia. Dai verdi rami arcuati, i rampicanti pendevano come pitoni. I guerrieri si disposero in fila indiana strisciando attraverso il crepuscolo primordiale come fantasmi neri dietro uno spettro bianco.
Il sottobosco non era così denso come Conan si era aspettato. Il suolo era spugnoso, ma non melmoso. Lontano dal fiume, saliva gradualmente. Si tuffarono sempre di più nelle verdi profondità ondeggianti, e non c'era ancora segno d'acqua, né corrente né stagnante. Conan si fermò all'improvviso e i suoi guerrieri si immobilizzarono come statue di basalto. Nel silenzio teso che seguì, il cimmero scosse il capo irritato.
«Andate avanti», disse al suo sottocapo N'Gora. «Andate dritto finché non mi vedrete più, poi fermatevi e aspettatemi. Credo che siamo seguiti. Ho sentito qualcosa.»
I negri mossero i piedi a disagio, ma fecero come era stato loro ordinato. Mentre continuavano la marcia, Conan si nascose rapido dietro un grande albero, sorvegliando il sentiero che avevano percorso. Non successe nulla; il debole suono dei guerrieri in marcia svanì in lontananza. Conan si accorse all'improvviso che l'aria era impregnata di un profumo esotico e alieno. Qualcosa gli sfiorò gentilmente la tempia. Si girò di scatto. Da un cespuglio di arbusti dalle foglie di forma curiosa, grandi fiori neri annuivano verso di lui. Uno di essi l'aveva toccato. Sembravano invitarlo, inarcare i loro steli pieghevoli nella sua direzione. Si muovevano e stormivano, anche se non soffiava un alito di vento.
Indietreggiò, riconoscendo il Loto Nero, il cui succo era morte e il cui profumo provocava una sonnolenza infestata da sogni. Ma già sentiva una sottile letargia impadronirsi di lui. Cercò di sollevare la spada per troncare quegli steli serpentini, ma il braccio gli pendeva inerte al fianco. Aprì la bocca per chiamare i guerrieri, ma ne uscì solo un debole mormorio. E subito dopo, con paurosa sveltezza, la giungla ondeggiò e si sfocò davanti ai suoi occhi; non udì le grida che scoppiarono terrificanti, poco lontano, mentre i ginocchi gli mancavano e cadeva al suolo. Sul suo corpo inerte i grandi fiori neri annuivano nell'aria immota.

3.

Fu un sogno portato dal Loto Nero?
Allora sia maledetto il sogno che comprò la mia vita pigra;
E maledetta ogni lenta ora che non vede
Caldo sangue gocciolare scuro dal coltello arrossato.
Il canto di Bêlit

Dapprima ci fu l'oscurità del vuoto completo, con i venti freddi dello spazio cosmico che lo percorrevano. Poi forme vaghe, mostruose ed evanescenti, rotolarono in un oscuro panorama attraverso una distesa di nulla, come se l'oscurità acquistasse forma materiale. I venti soffiarono e si formò un vortice, una piramide roteante di tenebra ruggente. Da esso crebbero forma e dimensione; poi, all'improvviso, come nuvole che si disperdano, l'oscurità rotolò via da ogni lato e una gigantesca città di pietra color verde scuro sorse sulla riva di un ampio fiume che scorreva in una piana illimitata. In questa città si mossero esseri dalle forme aliene.
Fatti a immagine dell'umanità, erano distintamente non umani. Erano alati e di proporzioni grandiose; non erano un ramo del misterioso albero dell'evoluzione culminante nell'uomo, ma il fiore aperto di un albero ignoto, separato e diverso dal primo. A parte le ali, nell'aspetto fisico somigliavano agli uomini come un uomo nella pienezza del suo aspetto assomiglia alle grandi scimmie. Per quanto riguarda lo sviluppo spirituale, estetico e intellettuale, erano superiori all'uomo quanto l'uomo lo è al gorilla. Ma quando innalzarono la loro colossale città, i primi antenati dell'uomo non erano ancora sorti dal limo dei mari primordiali.
Quegli esseri erano mortali, come lo sono tutte le cose fatte di sangue e di carne. Vivevano, amavano e morivano, anche se la durata individuale della loro vita era enorme. Poi, dopo innumerevoli milioni di anni, il Cambiamento ebbe inizio. Il panorama splendette e ondeggiò, come un'ombra proiettata contro una tenda svolazzante. Sulla città e sul paese le ere fluirono come onde sulla spiaggia, e ogni onda portò modifiche. In qualche punto del pianeta i poli magnetici si spostarono: i grandi ghiacciai e le banchise si ritrassero verso i nuovi poli.
Il litorale del grande fiume cambiò. Le pianure si mutarono in paludi mefitiche abitate da rettili. Dove c'erano praterie, adesso s'innalzavano foreste che si mutavano in giungle umide. E gli anni del mutamento operarono anche sugli abitanti della città. Essi non migrarono verso terre più fresche. Motivi inspiegabili per l'umanità li trattennero nell'antica città, consegnandoli alla rovina. E come le terre un tempo ricche e potenti affondavano sempre più nel nero pantano della giungla senza sole, così il popolo della città affondò nel caos della vita sbraitante della giungla. Terrificanti convulsioni scossero la terra; le notti riflettevano vulcani in eruzione che orlavano l'orizzonte buio con colonne rossastre.
Dopo un terremoto che fece crollare le mura esterne e le più alte torri della città e fece diventare nera per giorni l'acqua del fiume, a causa di qualche sostanza letale generata dagli abissi sotterranei, un terribile cambiamento chimico divenne manifesto nelle acque che la gente aveva bevuto per incalcolabili millenni.
Molti morirono, e in quelli che sopravvissero si produsse un cambiamento sottile, graduale e orribile. Adattandosi alle mutate condizioni, erano sprofondati molto al di sotto del loro livello originale. Ma le acque letali li alterarono in maniera ancora più orribile, di generazione in generazione, bestialmente. Quelli che erano stati Dèi alati divennero Demoni, e i resti della vasta conoscenza dei loro antenati divennero distorti, pervertiti e deviati verso sinistri sentieri. Come erano saliti più in alto di quanto l'umanità potesse sognare, così si inabissarono più in basso dei più pazzi incubi dell'uomo. Morirono velocemente, per il cannibalismo e orribili lotte intestine combattute nelle tenebre della giungla notturna. E infine nelle rovine coperte d'erbacce della loro città si aggirò solo un'ultima figura, una rachitica orrenda perversione della natura.
E allora per la prima volta comparvero gli esseri umani: uomini dalla pelle scura, dal volto aquilino, in corazze di rame e di cuoio, armati d'arco: i guerrieri della Stygia preistorica. Erano solo una cinquantina, ed erano magri e sparuti per l'inedia e gli sforzi prolungati, sporchi e graffiati dal girovagare nella giungla, con fasciature lorde di sangue rappreso che narravano di una feroce battaglia. Nelle loro mentì c'era una storia di guerra e disfatta, e di fuga davanti a una tribù più forte che li aveva spinti verso meridione, finché non s'erano persi nel verde oceano della giungla e del fiume.
Esausti, si erano distesi fra le rovine, dove boccioli rossi che fioriscono una volta ogni cento anni ondeggiavano alla luna piena, e il sonno li aveva colti. Mentre dormivano, un'orribile figura dagli occhi iniettati di sangue era strisciata su di loro dall'ombra e aveva compiuto strani riti spaventosi su ognuno di essi. La luna era alta nel cielo scuro, e dipingeva la giungla di rosso e di nero; sopra i dormienti luccicavano i fiori, scarlatti come macchie di sangue. Poi la luna tramontò e gli occhi del negromante erano gemme rossastre incastonate nell'ebano della notte.
Quando l'alba distese il suo bianco velo sopra il fiume, non c'erano più uomini: solo un orrore peloso e alato, che se ne stava accovacciato in mezzo a un circolo di cinquanta enormi iene maculate, le quali puntavano i grugni tremanti al cielo spettrale e ululavano come anime dannate.
Le scene si seguivano l'una dopo l'altra, sovrapponendosi. C'era confusione di movimento, sovrapposizione di luce e ombre, contro uno sfondo di giungla tenebrosa, rovine di pietra verdastra, e il fiume cupo; negri risalirono il fiume in lunghe imbarcazioni con la prora adorna di teschi ghignanti, o avanzarono di nascosto piegati in due fra gli alberi, lance in mano. Fuggirono urlando nel buio, inseguiti da occhi ardenti e zanne affilate. Gemiti di uomini morenti scossero le ombre: piedi furtivi si mossero nell'oscurità, occhi vampireschi brillarono rossi. Ci furono sinistri festini sotto la luna, contro il cui disco rossastro si stagliava incessantemente un'ombra a forma di pipistrello.
Poi, d'improvviso, chiaramente scolpita contro quegli squarci, attorno al promontorio coperto di giungla, avanzò all'albeggiare una lunga galea piena di scintillanti figure d'ebano, sulla cui prua c'era un gigante dalla pelle bianca vestito d'acciaio azzurrino.
Fu a questo punto che Conan si rese conto di sognare. Fino ad allora non aveva avuto coscienza della sua esistenza individuale. Ma quando vide se stesso calpestare le tavole della Tigre, riconobbe sia l'esistenza sia il sogno, anche se non si destò.
Mentre se ne meravigliava, la scena cambiò improvvisamente e diventò una radura della giungla dove N'Gora e diciannove lancieri negri erano fermi come in attesa di qualcuno. Mentre si rendeva conto che era lui quello che aspettavano, un orrore scivolò su di loro dal cielo ed essi fuggirono con grida di paura. Come uomini impazziti per il terrore gettarono via le armi e corsero pazzamente per la giungla, inseguiti da vicino dalla mostruosità che batteva le ali sul loro capo.

Caos e confusione seguirono quella visione, durante la quale Conan lottò debolmente per svegliarsi. Gli parve di vedere confusamente se stesso giacere sotto un grappolo ondeggiante di boccioli neri, mentre fra gli arbusti una forma orribile strisciava verso di lui. Con uno sforzo selvaggio, spezzò gli invisibili legami che lo tenevano avvinto al suo sogno e balzò in piedi.
C'era stupore nell'occhiata che si lanciò intorno. Lì vicino ondeggiava il Loto Nero, e si affrettò ad allontanarsi.
Nel terreno spugnoso circostante c'era un'impronta, come di un animale che avesse fatto il primo passo per emergere dai cespugli e poi si fosse ritirato. Pareva l'impronta di una iena incredibilmente grande.
Mandò un grido di richiamo per N'Gora. Un silenzio primordiale si era addensato sulla giungla, e il suo grido risuonò acuto e vuoto come un suono di scherno. Non poteva vedere il sole, ma il suo istinto sviluppatosi nelle zone selvagge gli disse che il giorno si avvicinava alla fine. Avvertì un senso di panico, rendendosi conto che era rimasto privo di sensi per ore intere. Seguì in fretta le tracce dei lancieri, visibili nel terreno molle. Formavano una fila indiana e lo condussero nella radura, dove si fermò di botto, con la schiena percorsa da un brivido, riconoscendo la radura che aveva visto nel sogno procuratogli dal Loto Nero. Scudi e lance giacevano alla rinfusa, come abbandonati in una fuga precipitosa.
E dalle tracce che conducevano fuori dalla radura e si inoltravano nella giungla, Conan seppe che i negri erano fuggiti alla cieca. Le impronte si sovrapponevano, ondeggiando attorno agli alberi. E con sorpresa il cimmero si trovò d'un tratto fuori della giungla, su una roccia a montagnola che si innalzava ripida per fermarsi di colpo a formare un precipizio di una dozzina di metri. E qualcosa era acquattato sull'orlo.
Dapprima Conan pensò che si trattasse di un enorme gorilla nero. Poi vide che si trattava di un negro gigantesco che era accovacciato come un animale con le braccia penzoloni e la schiuma alle labbra. E fino a quando la creatura non sollevò le grandi mani con un grido singhiozzante e si precipitò verso di lui, Conan non riconobbe N'Gora. Il negro non fece caso al grido di Conan, e caricò, con gli occhi che mostravano il bianco, i denti luccicanti, il volto una maschera inumana.
Rabbrividendo per l'orrore che la visione della pazzia provoca nella gente normale, Conan infilzò con la spada il negro; poi, evitando le mani adunche che cercavano di afferrarlo anche mentre N'Gora ricadeva al suolo, il barbaro avanzò fino all'orlo del precipizio.
Per un attimo rimase fermo a guardare le rocce appuntite sottostanti, dove giacevano i lancieri di N'Gora, in pose inerti e distorte che rivelavano membra spezzate e ossa rotte. Nessuno si muoveva. Una nuvola di grandi mosche nere ronzava sonoramente sopra le pietre macchiate di sangue; le formiche avevano già cominciato a ricoprire i corpi. Sugli alberi circostanti erano appollaiati uccelli da preda, e uno sciacallo, guardando in alto e vedendo l'uomo fermo sul ciglio, si ritirò furtivamente.
Per qualche tempo Conan rimase immobile. Poi girò su se stesso e di corsa tornò indietro, lanciandosi fra l'erba alta e gli arbusti, saltando i rampicanti che si stendevano come serpenti sulla sua strada. La spada gli pesava in pugno e un insolito pallore gli tingeva il volto abbronzato.
Il silenzio che regnava nella giungla rimaneva ininterrotto. Il sole era tramontato e grandi ombre balzavano dal fango del suolo nero. Attraverso le ombre gigantesche di morte in agguato e di sinistra desolazione, Conan era uno scintillio veloce di scarlatto e acciaio azzurrino. Non si sentiva alcun suono, in quella solitudine, tranne il suo rapido ansimare quando sbucò dall'ombra nell'indistinto crepuscolo della riva del fiume.
Vide la galea accostata al molo, e le rovine alzarsi come ubriache nella grigia mezzaluce.
E qua e là fra le pietre c'erano macchie di colore brillante, come se una mano incurante le avesse sporcate con un pennello scarlatto.
Ancora una volta Conan aveva davanti agli occhi morte e distruzione. Davanti a lui giacevano i suoi lancieri, e non si alzarono ad accoglierlo. Dal margine della giungla alla riva del fiume, fra le colonne e le banchine in rovina, essi giacevano, maciullati, straziati e semidivorati, smozzicate caricature d'uomini.
Tutt'attorno ai corpi e ai pezzi di corpi c'era una quantità di gigantesche impronte di zampe, simili a quelle delle iene.
Conan avanzò silenziosamente sulla banchina, avvicinandosi alla galea; sopra il ponte era sospeso qualcosa che luccicava bianco come avorio nella debole luce del crepuscolo. Senza parole il cimmero guardò la Regina della Costa Nera penzolare dal pennone della sua stessa nave. Fra il pennone e la gola si stendeva una fila di grumi rossi che brillavano come sangue nella luce grigiastra.

4.

Le ombre erano nere intorno a lui,
Le schiumanti zanne si aprivano,
Più fitto della pioggia cadeva il sangue;
Ma il mio amore era più forte della Morte,
E tutte le mura di ferro dell'Inferno
Non potevano tenermi lontana da lui.
Il canto di Bêlit

La giungla era un nero colosso che rinserrava tra le sue braccia d'ebano la spianata ricoperta di rovine. La luna non era ancora sorta; le stelle erano scintille di ambra rovente, in un cielo senza respiro che puzzava di morte. Sulla piramide che sorgeva fra le torri crollate, Conan il Cimmero sedeva come una statua di ferro, con il mento appoggiato ai pugni massicci. Ai margini della radura, fra ombre tenebrose, taciti piedi calpestavano il terreno e occhietti rossi scintillavano. I morti giacevano insepolti. Ma sul ponte della Tigre, sopra una pira di panche spezzate, di aste di lancia e di pelli di leopardo, giaceva nel suo ultimo sonno la regina della Costa Nera, avvolta nel mantello rosso di Conan. Come una vera regina ella giaceva, con il bottino ammassato intorno a lei: seta, ricami in filo d'oro, catene d'argento, casse di gemme e di auree monete, lingotti di metallo prezioso, pugnali ingemmati.
Ma dove il bottino della città maledetta giacesse, soltanto le acque stagnanti del fiume Zarkheba avrebbero potuto rivelarlo, nel punto dove Conan lo aveva gettato con barbariche imprecazioni. Ora il barbaro sedeva trucemente sulla piramide, in attesa degli invisibili nemici. La nera furia del suo cuore aveva scacciato ogni paura. Non sapeva quali forme sarebbero emerse dall'oscurità, né voleva saperlo.
Non aveva più dubbi sulle visioni del Loto Nero. Comprendeva che, mentre lo attendevano nella radura, N'Gora e i compagni erano impazziti per il terrore del mostro alato che scendeva su di loro dal cielo, e che, fuggendo in preda al panico più cieco, erano precipitati nel burrone; tutti, ad eccezione del loro capo, il quale era riuscito in qualche modo a evitarne il destino, ma non era sfuggito alla follia. È nello stesso tempo, o immediatamente dopo, o poco prima, c'era stato il massacro di coloro che erano rimasti sulla riva del fiume. Conan non dubitava che la battaglia lungo il fiume fosse stata più un massacro che non un combattimento; già debilitati dalla loro superstiziosa paura, forse i negri erano morti senza poter sferrare neppure un colpo a propria difesa, quando erano stati attaccati dai loro nemici inumani.
Non capiva perché lui fosse stato risparmiato fino a quel momento, a meno che la maligna entità che dominava il fiume non intendesse tenerlo in vita per tormentarlo con la paura e il rimpianto. Tutto pareva indicare un'intelligenza umana o sovrumana: la rottura dei recipienti dell'acqua per dividere le forze, l'aver sospinto i negri verso il precipizio nascosto, e, ultima e massima beffa, la collana scarlatta legata intorno al bianco collo di Bêlit, come il cappio del boia.
Ed essendosi riservato il cimmero come ultima e più preziosa vittima, e avendo spremuto da lui fino all'ultima goccia una sottile tortura mentale, era probabile che il nemico invisibile volesse concludere il dramma facendogli fare la fine dei compagni. A questo pensiero, nessun sorriso piegò le labbra risolute di Conan: solo i suoi occhi si accesero di un sinistro lucore.
La luna si alzò, scintillando come fuoco sull'elmetto adorno di corna che il cimmero portava sul capo. Nessun grido destò un'eco; eppure, d'improvviso, la notte fu carica di tensione, e la giungla trattenne il respiro. Istintivamente, Conan liberò il fermo della spada, ancora infilata nel fodero. La piramide sulla quale sedeva aveva quattro facce, e una di esse - la faccia rivolta alla giungla - era costituita da un'ampia scalinata. Teneva in mano un arco shemita, come quelli che Bêlit faceva usare ai suoi pirati. Ai suoi piedi giaceva un mucchietto di frecce, con la cocca rivolta nella sua direzione, e lui era inginocchiato su una gamba sola.
Qualcosa si mosse nell'oscurità sotto gli alberi. Stagliate d'improvviso sullo sfondo della luna che s'innalzava, Conan vide una testa scura e un paio di spalle dal profilo animalesco. E poi dall'ombra si fecero avanti silenziosamente, rapidamente, alcune forme scure che correvano basse: venti enormi iene maculate. Le loro zanne schiumanti lampeggiavano al chiarore lunare, i loro occhi brillavano come mai avevano brillato gli occhi di un animale vero.
Erano venti: dunque le lance dei pirati avevano fatto vittime tra il branco, dopotutto. E mentre così pensava, Conan si portò la cocca accanto all'orecchio: al colpo sordo dell'arco, un'ombra dagli occhi di fiamma fece un balzo altissimo e ricadde a terra contorcendosi. Le altre ombre non si fermarono; continuarono ad avanzare, e fra di loro, come una pioggia di morte, piombarono le frecce del cimmero, cariche di tutta la forza e la precisione di muscoli d'acciaio sorretti da un odio rovente come le fiamme dell'inferno.
Nella furia della battaglia, Conan non mancò il bersaglio; l'aria fu piena di mortali asticciole pennute. Il massacro provocato tra il branco che correva verso di lui era sorprendente. Meno di metà degli animali raggiunse i piedi della piramide. Altri caddero sui suoi ampi gradini. E abbassando lo sguardo sui loro occhi brucianti, Conan seppe che quelle creature non erano bestie; avvertiva in loro un'empia differenza, e non soltanto perché avevano una taglia innaturale. Trasudavano un'aura tangibile, come la nebbia scura che s'innalza da una palude coperta di cadaveri. Non avrebbe saputo dire quale blasfema alchimia avesse messo al mondo quelle creature; ma sapeva di avere davanti a sé un'opera diabolica, più nera dei Pozzi di Skelos.
Balzando in piedi, curvò poderosamente l'arco e cacciò la sua ultima freccia, senza mirare, nel ventre di una grossa forma pelosa che si avventava contro la sua gola. Come un raggio di luna, la freccia guizzò avanti, senza il minimo tremito nella traiettoria, e la bestia mannara si contorse in convulsioni, a mezz'aria, e ricadde a terra trapassata da parte a parte.
Poi il resto del branco fu su di lui, in una folle, spasmodica corsa di occhi di fiamma e di fauci schiumanti. La sua spada feroce tagliò in due il primo animale, poi gli altri gli furono sopra, e con il loro urto disperato lo trascinarono a terra. Spaccò un cranio allungato, con il pomo dell'elsa: sentì scheggiarsi l'osso, il sangue e il cervello sporcargli la mano. Poi, lasciata cadere a terra la spada ormai inutilizzabile in un corpo a corpo, cercò di afferrare, una per mano, due gole dei mostri che cercavano di morderlo con furia muta. Un odore acre e malsano lo assalì, il suo stesso sudore gli bruciò gli occhi. Solo la cotta di maglia poté evitargli di essere fatto a pezzi in un istante. La sua mano destra, nuda, si serrò su una gola pelosa e la squarciò. La mano sinistra mancò la gola dell'altra bestia, ma riuscì tuttavia ad afferrare la zampa e a spezzargliela. Un breve guaito - unico grido di quella cupa battaglia: un grido orrendamente simile a quello di un uomo - uscì dalle fauci della bestia ferita. Di fronte all'orrore sconvolgente di quel grido scaturito da una strozza bestiale, Conan involontariamente allargò le dita.
Una delle due bestie, con il sangue che sprizzava dalla giugulare strappata, balzò contro di lui in un ultimo sussulto di ferocia, e strinse le zanne sulla sua gola... per subito ricadere all'indietro, morta, nello stesso momento in cui Conan avvertiva il dolore lacerante del morso.
L'altra, balzando in avanti su tre zampe, cercò di mordergli l'addome come un lupo, e gli squarciò gli anelli della maglia. Spingendo via la bestia morente, Conan afferrò il mostro azzoppato, e, con uno sforzo che destò un grugnito sulle sue labbra macchiate di sangue, lo sollevò di peso, stringendolo fra le braccia mentre ancora cercava di divincolarsi e di mordere. Per un istante Conan barcollò, rischiando di perdere l'equilibrio, quando il respiro fetido e rovente della bestia gli ferì le nari, e le sue fauci cercarono di mordergli il collo; poi la scagliò lontano da sé, precipitandola sui gradini a schiantarsi le ossa.
E mentre oscillava sulle gambe, aperte al massimo per avere un più fermo appoggio, e ansimava, e la giungla e la luna ondeggiavano in un velo rossastro sotto il suo sguardo, ai suoi orecchi giunse un forte battito di ali di pipistrello. Si chinò ad afferrare la spada, e una volta raddrizzatosi, si rimise saldo sulle gambe e sollevò la grossa lama al di sopra della testa, con entrambe le mani, cercando di scuotersi dagli occhi il velo sanguigno, mentre scrutava l'aria alla ricerca del nemico volante.
Ma invece di un assalto dall'aria, fu la piramide a barcollare improvvisamente, sinistramente, sotto di lui. Udì un crepitio forte come quello del tuono, e vide ondeggiare sopra di sé l'alta colonna, come un bastone agitato da una mano possente. Spronato a una frenetica azione, fece un balzo ciclopico; il suo piede incontrò un gradino, a metà della discesa, che ondeggiò sotto di lui, ma il secondo, disperato balzo lo portò fuori pericolo. E proprio mentre il suo piede incontrava il terreno, la piramide crollò su se stessa con uno schianto fragoroso, simile a quello di una montagna squarciata; poi, con rombo di tuono, anche la colonna precipitò in mille frammenti. Per un cieco catastrofico istante, frammenti di marmo parvero piovere dal cielo. Infine, solo una distesa di frantumi di pietra rimase a giacere bianca e immota sotto i raggi della luna.
Conan si scosse, liberandosi dai cocci che lo coprivano per metà. Un colpo di striscio gli aveva tolto di testa l'elmetto, e per un attimo l'aveva stordito. Sulle sue gambe posava un grosso frammento di colonna, che lo teneva inchiodato al suolo. Temette di essersi spezzato le gambe. La sua chioma corvina era impastata di sudore; un fiotto di sangue scendeva dalle ferite alla gola e alle mani. Cercò di sollevarsi su un braccio, allontanando le schegge di marmo che lo coprivano.
Poi qualcosa si stagliò sullo sfondo delle stelle, toccando terra a poca distanza da lui. Volgendo il capo da quella parte, lo vide... il Demone alato!
Il Demone si stava precipitando contro di lui con spaventosa rapidità, e in quell'istante Conan ebbe solo la confusa impressione di una forma gigantesca, simile a quella umana, che si muoveva su gambe curve e tozze; di enormi, difformi braccia allargate, di mani dagli artigli neri; di una testa deforme, nella cui larga faccia era riconoscibile un solo connotato: gli occhi iniettati di sangue. Non era né uomo, né bestia, né Demone: era un miscuglio di tratti subumani e sovrumani insieme.
Conan non ebbe tempo di formulare un pensiero razionale, logico. Si gettò verso la spada che gli era sfuggita di mano, ma le sue dita non riuscirono a raggiungerla. Disperatamente, afferrò il frammento che gli bloccava le gambe, e le vene si gonfiarono sulle sue tempie quando cercò di sollevarlo. Si spostava, ma con lentezza, ed era sicuro che il mostro lo avrebbe raggiunto prima che potesse liberarsi: e quelle mani unghiute erano la morte certa.
La corsa della creatura alata non s'era fermata. Ora torreggiava come un'ombra nera sulla forma prostrata del cimmero, e allargava le braccia... quand'ecco una bianca figura guizzare tra il mostro e la vittima.
In un folle istante era accorsa... una forma bianca e tesa, vibrante di un amore feroce come quello di una pantera. L'attonito cimmero vide, tra sé e la morte, la sottile figura di lei, luccicante come avorio ai raggi della luna; vide la fiamma dei suoi occhi neri, la spessa corona dei suoi capelli d'ebano; il suo petto si sollevava, le sue labbra rosse erano dischiuse. Lanciò un grido acuto, echeggiante come l'acciaio, gettandosi contro il petto del mostro alato.
«Bêlit!», urlò Conan. Lei lanciò un'occhiata rapidissima nella sua direzione, e negli occhi scuri comparvero le fiamme del suo amore: qualcosa di nudo e di elementare, fatto di fuoco grezzo e di lava fusa. Poi scomparve, e il cimmero vide solo il Demone alato, che si era tratto indietro, con inusitata paura, e sollevava le braccia come per difendersi da un assalto. E lui seppe che Bêlit adesso giaceva sulla sua pira, a bordo della Tigre. Nella mente gli echeggiarono le sue parole appassionate: «Se io fossi nell'immobilità della morte, e tu stessi lottando per la vita, tornerei indietro dall'abisso per aiutarti...».
Con un urlo terribile, Conan sollevò la pietra, scagliandola di lato. Il mostro alato tornò a buttarsi su di lui, e il cimmero balzò in piedi per affrontarlo, con le vene infiammate dalla follia. I muscoli si tesero come corde d'acciaio sulle sue braccia, quando brandì la grande spada e ruotò le caviglie per la violenza dell'arco descritto dalla lama. Poco al di sopra dei fianchi la lama colpì la forma che si precipitava contro Conan, e le gambe tozze caddero da una parte, il torso da un'altra, quando la spada tagliò in due tronconi, nettamente, il corpo coperto di pelo.
Conan rimase immobile nel silenzio illuminato dalla luna, e la lama sporca di sangue divenne pesante nella sua mano. I suoi occhi si posarono sui resti del nemico. Gli occhi rossi lo fissarono ancora, arroventati da una terribile vitalità, poi si velarono e non si mossero più; le grandi mani si tesero spasmodicamente, e infine si irrigidirono. Così si estinse la più antica razza del mondo.
Il barbaro alzò lo sguardo, cercando meccanicamente gli animali che erano gli schiavi e i carnefici dell'orrore alato. Ma nessuno di essi si presentò alla sua vista. I corpi ch'egli vide, stesi sull'erba illuminata dal chiarore lunare, erano corpi umani, e non di bestie: uomini dal viso grifagno e dalla pelle nera, nudi, trafitti da frecce o fatti a pezzi da colpi di spada. E sotto i suoi occhi diventarono polvere.
Perché il padrone alato non era giunto in soccorso dei suoi schiavi, quando lui aveva lottato con loro? Aveva avuto paura di giungere alla portata di zanne che gli si sarebbero potute rivoltare contro per farlo a brani? Astuzia e circospezione avevano dimorato in quel cranio deforme, ma in definitiva non gli erano stati di molto giovamento.
Girando sui tacchi, il cimmero si avviò verso il molo decrepito e salì a bordo della nave. Con alcuni colpi di spada recise gli ormeggi, e si recò a poppa. La Tigre beccheggiò piano sull'acqua sonnolenta, scivolando torpidamente verso il centro del fiume, finché non fu presa dalla corrente centrale. Conan si appoggiò al timone, e il suo sguardo dolente si fermò a lungo sulla forma che, avvolta in un rosso mantello, giaceva sulla pira funeraria, in mezzo a ricchezze che sarebbero state sufficienti a riscattare un'imperatrice.

5.

Ora abbiamo finito di navigare, per sempre.
Basta con i remi, il vento ha finito di soffiare;
La rossa bandiera non impaurirà più la spiaggia;
Azzurra cintura del mondo, ricevi di nuovo
Colei che tu mi donasti.
Il canto di Bêlit

L'alba tingeva di nuovo l'oceano. Un bagliore più rosso illuminava la foce del fiume. Conan il Cimmero si appoggiava alla lunga spada, sulla bianca spiaggia, e osservava la Tigre allontanarsi per il suo ultimo viaggio. Gli occhi che contemplavano le distese trasparenti erano spenti. Dalle solitudini azzurre e agitate dalle onde era scomparsa ogni gloria e ogni meraviglia. Un senso feroce di disgusto lo scosse, quando il suo occhio si posò sui verdi cavalloni che in lontananza sfumavano tra veli rosati di mistero.
Bêlit era giunta dal mare; era stata lei a dare al mare ogni fascino e ogni splendore. Senza di lei, le acque erano soltanto un deserto spoglio, desolato e mortale, che si estendeva dall'uno all'altro polo. Bêlit apparteneva al mare, e all'eterno mistero del mare lui l'aveva restituita. Non poteva fare altro che questo. Per lui, ora, lo splendore azzurro e scintillante delle acque era più repellente che non le alte fronde che si agitavano e bisbigliavano alle sue spalle, narrandogli di terre selvagge e misteriose che si stendevano al di là: terre in cui presto si sarebbe tuffato.
Nessun marinaio era al timone della Tigre, nessun remo la spingeva fra le verdi acque. Ma un vento forte e pulito gonfiava la sua vela di seta, e, come un cigno che solca il cielo per dirigersi al proprio nido, la nave scivolava veloce nel mare, mentre le fiamme salivano sempre più alte sul suo ponte, lambivano l'albero maestro e avvolgevano una figura supina, avvolta in un manto scarlatto, sulla pira funeraria.
Così lasciò il mondo la Regina della Costa Nera, e Conan, appoggiato alla spada lorda di sangue, rimase immobile e silenzioso finché il rosso bagliore non svanì lontano, tra la caligine azzurrina, e l'alba non dipinse di rosa e d'oro l'oceano.

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