martedì 16 giugno 2015

Conan - La figlia del gigante dei ghiacci

La Figlia del Gigante dei Ghiacci (The Frost Giant's Daughter, altrimenti conosciuto con il titolo Gods of the North), noto anche come La figlia del Gigante del Gelo, è un racconto fantasy facente parte del ciclo di Conan il barbaro dello scrittore Robert Ervin Howard, datato 1932.

La figlia del gigante dei ghiacci

Il clangore di spada e d'ascia si era spento; il clamore della carneficina si era quietato; il silenzio gravava sulla neve macchiata di rosso. Il freddo, pallido sole che traeva barbagli abbaglianti dalle distese di ghiaccio e dalle piane coperte di neve, faceva scaturire riflessi argentei dai corsaletti squarciati e dalle lame spezzate, là dove i morti giacevano così com'erano caduti. La mano senza forza reggeva ancora l'elsa spezzata; teste coperte dall'elmo, contratte negli spasimi della morte, parevano accennare orrendamente verso l'alto con la barba rossiccia o bionda, come se per l'ultima volta volessero invocare Ymir, il gigante dei ghiacci, Dio di una stirpe guerriera.
In mezzo alle spoglie insanguinate e ai corpi rivestiti dalle armature, due figure si fissavano con odio reciproco. In quell'assoluta desolazione, soltanto esse si muovevano ancora. Il cielo gelido le sovrastava, la sconfinata pianura bianca le circondava, e ai loro piedi giacevano i corpi dei morti. Avanzarono lentamente, come fantasmi giunti per un appuntamento tra l'ecatombe di un mondo morto. Nel silenzio carico di tensione, si affrontarono immoti.
Entrambi erano alti, e robusti come tigri. Avevano perso lo scudo, e l'armatura era intaccata e ammaccata. Sulla corazza, il sangue si era rappreso; la spada era macchiata di rosso. L'elmo, ornato di corna, era segnato da colpi possenti. Uno dei due guerrieri non aveva la barba, e i suoi capelli erano neri; i capelli e la barba dell'altro erano invece rossi, al pari del sangue sparso sulla neve illuminata dal sole.
«Uomo», fece questi. «Dimmi il tuo nome, cosicché i miei fratelli del Vanaheim possano sapere chi è stato l'ultimo della banda di Wulfhere a cadere sotto la spada di Heimdal.»
«Non certo nel Vanaheim», brontolò il guerriero dai capelli neri, «ma nel Valhalla potrai raccontare ai tuoi fratelli di avere incontrato Conan il Cimmero!»
Heimdal ruggì e si avventò, e la sua spada luccicò in un arco mortale. Quando la lama sibilante si abbatté sul suo elmo e si frantumò in azzurre scintille, Conan vacillò, e la sua vista si riempì di lucciole rosse. Ma, pur barcollando, riuscì ugualmente ad affondare la spada con tutta la forza delle sue ampie spalle. La punta aguzza trapassò piastre d'ottone, ossa e cuore, e il guerriero dai capelli rossi morì ai piedi di Conan.
Il cimmero rimase in piedi, abbassando lentamente la spada, e si sentì assalire da un'improvvisa stanchezza. Il riflesso del sole sulla neve gli feriva gli occhi come un coltello, e il cielo gli sembrava rattrappito, stranamente lontano. Voltò le spalle alla distesa calpestata, dove guerrieri dalla barba bionda giacevano insieme ai loro uccisori dalla rossa capigliatura, uniti nel comune abbraccio della morte. Fece solo pochi passi, e il riflesso della distesa di neve si affievolì all'improvviso. Un'onda di cecità lo avviluppò, e il barbaro sprofondò nella neve, sostenendosi su un braccio coperto di maglia d'acciaio e cercando di scuotere via dagli occhi quel buio, come un leone che agita la criniera.

Una risata argentina si fece d'improvviso strada attraverso quello stato di incoscienza, e la vista di Conan si schiarì lentamente. Sollevò lo sguardo: nel paesaggio c'era qualcosa di strano, che non riusciva a riconoscere o a definire... un'insolita sfumatura nel colore della terra e del cielo. Ma subito la sua mente lasciò quel pensiero. Davanti a lui, tremula come un alberello nel vento, era ferma una ragazza. Ai suoi occhi velati, il corpo della nuova venuta pareva d'avorio; ad eccezione di un lieve velo di organza, era nuda come il giorno. I suoi piedi esili erano più candidi della neve che calpestavano. Rise, fissando dall'alto il guerriero stupito, e la sua risata era più dolce del gorgoglio di una fonte argentina, ma conteneva gli accenti velenosi di una derisione crudele.
«Chi sei?», le chiese il cimmero. «Da dove vieni?»
«Che importa?» La sua voce era più musicale di un'arpa dalle corde d'argento, ma aveva una punta affilata di crudeltà.
«Chiama i tuoi uomini», le disse allora, afferrando la spada. «Anche se le forze mi vengono meno, non sono disposto a farmi prendere vivo. Vedo che appartieni ai Vanir.»
«Ti ho detto questo?»
Lo sguardo di Conan si posò nuovamente sui riccioli scarmigliati della ragazza, che a prima vista gli erano parsi rossi. Adesso poté vedere che non erano né rossi né biondi, ma uno splendido miscuglio di entrambi i colori. La fissò affascinato. Quei capelli erano come l'oro degli elfi; il sole li colpiva con un riflesso così abbagliante, che Conan non riuscì quasi a sopportarne la vista. E anche gli occhi della ragazza non erano né del tutto azzurri, né del tutto grigi, ma di colori cangianti, con tracce di tinte che non avevano nome. Le labbra, piene e rosse, sorridevano ancora, e dai piedi sottili, fino all'accecante corona dei suoi capelli ondulati, il corpo eburneo era perfetto come il sogno di un Dio. Il sangue cominciò a martellare nelle tempie di Conan.
«Non riesco a capire», le disse infine, «se tu sia del Vanaheim, e mia nemica, o di Asgard e mia amica. Ho viaggiato fino alle terre più remote, ma non ho mai visto una donna simile a te. I tuoi riccioli mi accecano con il loro splendore. Non ho mai visto capelli come i tuoi, nemmeno tra le più leggiadre figlie degli Aesir. Per Ymir...»
«Chi sei, tu, per pronunciare il nome di Ymir?», lo derise lei. «Che cosa puoi sapere degli Dèi della neve e del ghiaccio, tu che sei salito dal Sud in cerca d'avventura tra un popolo straniero?»
«Per gli Dèi tenebrosi della mia razza!», esclamò Conan, rabbioso. «Non sono un aesir dai capelli d'oro, ma nessuno è stato più forte di me nell'usare la spada! Oggi ho visto cadere sei dozzine di uomini, e soltanto io sono sopravvissuto sul campo, quando i predoni di Wulfhere hanno incontrato i lupi di Bragi. Dimmi, ragazza: hai visto un riflesso di maglia d'acciaio sulle piane di neve, e hai visto uomini armati avanzare sul ghiaccio?»
«Ho visto la brina scintillare al sole», rispose lei. «Ho sentito il vento bisbigliare tra le nevi eterne.»
Con un sospiro, Conan scosse il capo. «Njord avrebbe dovuto raggiungerci prima che iniziasse la battaglia. Temo che lui e i suoi uomini siano caduti in un'imboscata. Wulfhere e i suoi guerrieri giacciono morti... Pensavo che non ci fossero villaggi per molte leghe da qui, poiché la guerra ci ha portato lontano; ma tu non puoi avere percorso una grande distanza su queste nevi, nuda come sei. Conducimi alla tua tribù, se sei di Asgard, poiché sono indebolito dai colpi che ho ricevuto e sono stanco per la battaglia.»
«Il mio villaggio è più lontano di quanto tu possa camminare, Conan di Cimmeria», rise lei. Spalancando le braccia, ondeggiò davanti a lui: la sua testa dorata si agitava sensualmente, e i suoi occhi scintillanti scomparivano a tratti dietro le lunghe, seriche ciglia. «Non sono magnifica, uomo?»
«Come l'alba che corre nuda sulla neve», borbottò Conan, e i suoi occhi si accesero come quelli di un lupo.
«Allora, perché non ti alzi e non mi segui? Chi è questo forte guerriero che si ritira davanti a me?», cantò lei, in tono di scherno. «Stenditi a terra e muori nella neve, insieme con gli altri pazzi, Conan dai capelli neri! Tu non potresti seguirmi dove ti condurrei.»
Con un'imprecazione, il cimmero si sollevò in piedi, a fatica. I suoi occhi azzurri mandavano fiamme, e il suo volto abbronzato e segnato dalle cicatrici era contorto in una smorfia. L'ira gli agitava l'anima, ma il desiderio della figura provocante che aveva davanti a sé gli martellava le tempie, gli spingeva nelle vene il sangue selvaggio. La passione, bruciante come un tormento fisico, inondò tutto il corpo, e terra e cielo ondeggiarono arrossati davanti al suo sguardo confuso. Stanchezza e debolezza vennero spazzate via, tanto forte era la follia che si era impadronita di lui.
Non disse una sola parola mentre riponeva nel fodero la spada insanguinata e si spingeva verso di lei, con le dita aperte per afferrare la sua carne morbida. Ma la ragazza fece un balzo indietro, con uno scroscio di risa, e si mise a correre, ridendo di lui e guardandolo da dietro la spalla candida. Con un sordo ruggito, Conan la seguì. Si era scordato la battaglia, si era scordato i guerrieri armati che giacevano nel loro sangue, si era scordato Njord e i suoi predoni, che non erano arrivati in tempo per il combattimento. Pensava soltanto alla snella figura bianca, che sembrava fluttuare, più che correre, davanti a lui.
L'inseguimento lo portò lontano, lungo quella piana dall'accecante candore. Il campo arrossato e calpestato sparì alla vista di Conan, perdendosi alle sue spalle, ma lui con la silenziosa tenacia della sua razza, non tornò indietro. I piedi calzati di maglia d'acciaio spezzavano la crosta ghiacciata; affondava profondamente nei cumuli di neve, si faceva strada a fatica, grazie unicamente alla pura e semplice forza bruta. La ragazza, invece, pareva danzare sulla neve, leggera come una piuma fluttuante su uno stagno; i suoi piedi nudi lasciavano appena una minima impronta sulla brina che ricopriva la neve ghiacciata. Nonostante gli scorresse fuoco nelle vene, il cimmero sentiva il gelo penetrargli sotto l'armatura e la veste foderata di pelliccia; ma la ragazza nel suo velo d'organza correva lieve e a suo agio, come se danzasse fra le palme e le rose, in un giardino di Poitain.
La ragazza lo condusse sempre più lontano, e Conan la seguì. Tenebrose maledizioni colavano dalle sue labbra secche. Le vene possenti delle sue tempie si gonfiavano e pulsavano, i suoi denti si serravano inutilmente.
«Non potrai sfuggirmi!», ruggì. «Conducimi in una trappola, e io ammucchierò ai tuoi piedi le teste dei tuoi fratelli! Nasconditi, e io spaccherò le montagne per scovarti! Ti seguirò perfino all'inferno!»
La schiuma salì alle labbra del barbaro quando una risata di derisione giunse fino a lui, facendolo impazzire. La fanciulla continuava a condurlo sempre più lontano, nella distesa deserta. Il sole calava nel suo basso arco sull'orizzonte, le ore passavano, e il paesaggio circostante si trasformava; le ampie pianure lasciavano il posto a basse montagne dentate, raggruppate in aspre catene.
Lontano, a Nord, il cimmero colse con un'occhiata feroce una fila di montagne torreggianti, le cui nevi eterne, azzurrine per la distanza, erano tinte di sfumature rosacee dai raggi del sole al tramonto, rossi come il sangue. Nel cielo sempre più scuro brillavano i tremuli raggi dell'aurora boreale, che si allargava come un ventaglio... gelide lame di fredda, fiammeggiante luce, mutevoli di colore, che si facevano sempre più larghe e chiare.
Il cielo risplendeva e pullulava di insolite luci, di strani bagliori. La neve aveva riflessi spettrali: ora azzurro ghiaccio, ora freddo scarlatto, ora gelido argento. Conan continuò ad avanzare in quel freddo, vibrante reame incantato, in un labirinto cristallino dove l'unica realtà era il candido corpo che danzava sulla neve scintillante, al di là della sua portata... sempre al di là della sua portata.
Non provò meraviglia per la stranezza del paesaggio... nemmeno quando due gigantesche figure sorsero a sbarrargli la strada. Le piastre delle loro corazze erano bianche di brina; i loro elmi e le loro asce erano coperti di ghiaccio. I loro capelli erano spruzzati di neve, le loro barbe erano incrostate di ghiaccioli, i loro occhi erano freddi come le luci che fluttuavano nel cielo sopra di loro.
«Fratelli!», esclamò la ragazza, danzando in mezzo a loro. «Guardate chi mi segue! Vi ho portato un uomo da uccidere! Strappategli il cuore, cosicché possiamo deporlo fumante sulla tavola di nostro padre!»
I giganti risposero con ruggiti simili allo schianto di un iceberg contro una banchisa di ghiaccio. Brandirono le asce risplendenti alla luce delle stelle, mentre il cimmero, come impazzito, si precipitava contro di loro. Una lama coperta di ghiaccio lampeggiò davanti ai suoi occhi, abbagliandolo con il suo chiarore, e lui rispose con un terribile fendente, che mozzò una gamba dell'avversario, all'altezza del ginocchio.
Con un muggito, la vittima cadde a terra, e nello stesso istante Conan fu spinto nella neve, con la spalla sinistra intorpidita, da un colpo di striscio del secondo nemico: un colpo d'ascia che l'avrebbe ucciso, se non fosse stato deviato dalla cotta d'acciaio. Il cimmero vide troneggiare su di sé il gigante, come un colosso scolpito nel ghiaccio, stagliato contro il gelido splendore del cielo. La scure si abbassò... per conficcarsi profondamente nella neve e nel terreno gelato quando Conan scattò di lato e poi balzò in piedi. Il gigante ruggì e strappò l'ascia dalla neve; ma in quell'attimo la spada di Conan sibilò dall'alto in basso. Il gigante piegò le ginocchia e si accasciò lentamente nella neve, che divenne scarlatta per il fiotto di sangue sprizzato dal suo collo squarciato.
Conan si voltò, e scorse che la ragazza, ritta a poca distanza, lo fissava con occhi spalancati per l'orrore. Dal suo viso era scomparsa ogni traccia di derisione. Il cimmero lanciò un urlo feroce, e una pioggia di gocce di sangue schizzò dalla lama della sua spada, stretta in una mano che tremava per l'intensità dell'emozione.
«Chiama anche gli altri tuoi fratelli!», gridò. «Darò in pasto ai lupi il loro cuore! Non potrai sfuggirmi...»
Con un grido di paura, la ragazza si voltò e cominciò a correre velocemente. Ora non rideva più, non lo derideva più, da dietro la spalla bianca. Correva come per salvarsi la vita. E sebbene il cimmero sforzasse ogni muscolo e ogni nervo, finché gli parve che le tempie stessero per scoppiargli e che la neve ondeggiasse sanguigna davanti ai suoi occhi, la ragazza si allontanò da lui sempre di più, rimpicciolendo sullo sfondo dei fuochi fatui del cielo, fino a ridursi prima a una figurina grande come un bambino, poi a una danzante fiammella bianca sulla neve, che infine fu solo una macchia indistinta, perduta nella lontananza.
Ma Conan, stringendo i denti finché non gli parve di perdere sangue dalle gengive, continuò a inseguirla barcollando, finché la macchia non ridiventò una bianca fiamma danzante, e la fiammella una figura non più grande di un bambino. Alla fine la ragazza correva davanti a lui, a meno di cento passi di distanza e, lentamente, una falcata dopo l'altra, la distanza diminuì.
Adesso la ragazza correva con sforzo, e i suoi riccioli dorati si agitavano dietro di lei. Conan udì il rapido ansare del suo respiro, e vide un lampo di paura nell'occhiata che lei gli lanciò, da dietro la spalla bianca. La cupa resistenza del barbaro non lo tradì; invece, la forza della ragazza sfuggì pian piano dalle sue bianche gambe scattanti; la sua andatura perse il ritmo. Nell'animo indomito di Conan bruciavano le fiamme infernali che lei stessa aveva così bene attizzato. Con un urlo inumano, la raggiunse, proprio mentre lei si voltava con un grido disperato, e allungava le braccia per respingerlo.
Lasciando cadere la spada nella neve, Conan afferrò la ragazza e la strinse a sé. Il corpo snello di lei si piegò all'indietro, e si dibatté freneticamente in quelle braccia d'acciaio. I riccioli d'oro si sparsero sulla faccia del barbaro, accecandolo con il loro splendore; il contatto con quel corpo sottile, che gli si contorceva tra le braccia coperte di maglia d'acciaio, lo fece impazzire ancora di più. Le sue dita robuste affondarono profondamente nella carne morbida... e la trovarono fredda come il ghiaccio. Gli parve di abbracciare non già una donna di carne e sangue umani, bensì una donna di ghiaccio ardente. Lei contorse il capo dorato, sforzandosi di sfuggire ai baci feroci che le martoriavano le rosse labbra.
«Sei fredda come le nevi», mormorò Conan, stupito. «Ti scalderò con il fuoco del mio sangue...»
Con un grido e uno sforzo disperati, la ragazza si sciolse dall'abbraccio, lasciandogli nella mano soltanto il velo di organza. Balzò all'indietro e lo fronteggiò, con i riccioli d'oro scompigliati, il candido petto ansante, gli occhi bellissimi risplendenti di terrore. Per un attimo, Conan rimase impietrito, intimorito da tanta terribile bellezza, nel vederla nuda tra le nevi.
E in quell'attimo la ragazza protese le braccia verso le luci che risplendevano nel cielo e gridò, con una voce che sarebbe echeggiata a lungo negli orecchi di Conan: «Ymir! Padre mio, salvami!».
Conan già balzava in avanti, con le braccia aperte per afferrarla, quando, con un fragore simile a un'intera montagna di ghiaccio che andasse in frantumi, tutto il cielo s'illuminò di gelido fuoco. Il corpo bianchissimo della ragazza venne improvvisamente avvolto da una fredda, azzurra fiamma, così accecante che Conan dovette sollevare le mani per proteggersi gli occhi dal bagliore insopportabile. Per un fuggevole istante, i cieli e le montagne innevate s'inondarono di bianche fiamme sfrigolanti, azzurri dardi di luce glaciale, gelidi fuochi scarlatti.
Poi Conan barcollò e lanciò un grido acuto. La ragazza era sparita. La neve rilucente era vuota e spoglia: in alto, le luci fatue turbinavano in un gelido cielo impazzito. Tra le lontane montagne azzurre risuonò un rombo di tuono, come se passasse un gigantesco carro da guerra, trainato da destrieri i cui frenetici zoccoli traessero lampi dalle nevi, ed echi dai cieli.
Quindi l'aurora boreale, le montagne ammantate di neve, i cieli fiammeggianti vacillarono come ubriachi sotto lo sguardo di Conan. Migliaia di meteore scoppiarono con miriadi di scintille, e il cielo stesso divenne una titanica ruota, dal cui vorticare piovevano stelle. Sotto i piedi del cimmero, le colline coperte di neve si sollevarono come un'ondata; Conan si accartocciò sulla neve e giacque immobile.

In un universo freddo e tenebroso, nel quale il sole si era spento da intere epoche geologiche, Conan percepì il movimento della vita, straniero e insospettato. Un terremoto lo aveva afferrato e lo scuoteva qua e là, e intanto gli scaldava mani e piedi, finché egli non urlò di dolore e di rabbia, cercando a tastoni la spada.
«Rinviene, Horsa», disse una voce. «Presto, dobbiamo sfregargli le braccia per liberarle dal gelo, se vogliamo che possa ancora maneggiare una spada.»
«Non vuole aprire la sinistra», brontolò un'altra voce. «Stringe qualcosa.»
Conan aprì gli occhi e fissò i volti barbuti chini su di lui. Era circondato da guerrieri alti e biondi, vestiti di pelliccia e di maglia d'acciaio.
«Conan!», esclamò uno. «Sei vivo!»
«Per Crom, Njord», ansimò il cimmero. «Sono vivo davvero, o siamo tutti morti, e questo è il Valhalla?»
«Siamo vivi», borbottò l'aesir, occupato a frizionare i piedi semicongelati di Conan. «Abbiamo dovuto aprirci la strada combattendo, in un'imboscata, altrimenti ti avremmo raggiunto in tempo per l'inizio della battaglia. Quando siamo giunti sul campo, i morti non erano ancora freddi. Non ti abbiamo trovato tra gli uccisi, e allora abbiamo seguito le tue tracce. Nel nome di Ymir, Conan, perché ti sei allontanato verso il deserto di neve del Nord? Abbiamo seguito per ore intere le tue tracce sulla neve. Se una tormenta le avesse cancellate, non ti avremmo mai più ritrovato, per Ymir!»
«Non pronunciare troppe volte il nome di Ymir», brontolò un guerriero, con inquietudine, lanciando un'occhiata verso le montagne lontane. «Qui siamo nel suo regno, e le leggende dicono che dimori tra quei picchi.»
«Ho visto una donna», rispose Conan ancora annebbiato. «Abbiamo affrontato gli uomini di Bragi nelle pianure. Non ricordo per quanto tempo abbiamo combattuto. Io sono l'unico superstite. Ero debole e stordito. La terra si stendeva davanti a me come un sogno; soltanto adesso mi sembra ritornata familiare. Quella donna mi è comparsa davanti e mi ha schernito. Era bellissima. Come una fiamma congelata dell'inferno. Quando posai lo sguardo su di lei, una strana pazzia si impadronì di me, e dimenticai ogni altra cosa. La seguii. Non avete trovato le sue impronte? E i giganti rivestiti di maglia di ghiaccio che ho ucciso?»
Njord scosse il capo. «Abbiamo trovato solo le tue impronte sulla neve, Conan.»
«Allora devo essere impazzito», disse Conan, ancora confuso. «Eppure, tu stesso non mi appari più vero di quella ragazza dai capelli d'oro, che fuggiva nuda sulle nevi, davanti a me. Ed essa si è dissolta tra le mie mani, trasformandosi in una gelida fiamma.»
«Delira», sussurrò un guerriero.
«No!», esclamò un uomo anziano, i cui occhi parevano folli, spiritati. «Era Atali, la figlia di Ymir, il gigante dei ghiacci! Viene nei campi di battaglia, e si mostra ai moribondi. L'ho vista da ragazzo, quando giacevo in fin di vita sul campo insanguinato di Wolfraven. La vidi camminare tra i morti, in mezzo alla neve, con il corpo nudo che riluceva come avorio, i capelli dorati che splendevano insopportabilmente nella luce lunare. Io ero steso a terra e gemevo come un cane moribondo, poiché non potevo strisciare dietro di lei. Adesca i guerrieri, li allontana dai campi battuti e li conduce nelle distese deserte, per farli uccidere dai suoi fratelli, i giganti del ghiaccio, che poi depongono sulla tavola di Ymir i rossi cuori degli uomini, ancora fumanti. Il cimmero ha visto Atali, la figlia del gigante dei ghiacci!»
«Bah!», brontolò Horsa. «Da giovane, il vecchio Gorm è stato colpito alla testa da un colpo di spada, ed è rimasto un po' tocco. Conan delirava per la violenza della battaglia; guardate il suo elmo: è ammaccato. Uno di quei colpi deve avergli confuso il cervello. Quella che ha seguito nel deserto di neve era solo un'allucinazione. Viene dal Sud: che cosa può saperne di Atali?»
«Forse dici il vero», mormorò Conan. «Tutto era strano e sovrannaturale... Per Crom!»

Si interruppe bruscamente, fissando con occhi di fiamma l'oggetto che ancora pendeva dalla sua mano sinistra, stretta a pugno. Gli altri spalancarono la bocca, ammutoliti, nel vedere il tessuto ch'egli presentò ai loro occhi: un velo di organza sottile come una ragnatela, che non era stato filato da una conocchia umana.

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